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che ancora non se ne vedeva la fine.
Improvvisamente si accese. Un filo sottile di fredda luce argentea circondò la parte
inferiore della cosa, e si vide come un'apertura, un cerchio di luce che esplodeva d'un
tratto, simile a un'aureola.
È grande come una città, pensò Neary. Come Indianapolis. No, di più. Come De-
troit. La parte superiore sembrava una raffineria, tutta enormi serbatoi e tubature e
fiamme e luci che si accendevano e spegnevano. Quella massa che scivolava nel cielo
ricoprendo il canyon aveva un aspetto usato, sporco. Proprio come una città molto
vissuta o come un'immensa nave dei cieli ormai al lavoro da centinaia, migliaia, mi-
lioni di anni. Né Neary né alcuno degli scienziati e dei tecnici avevano mai visto o
immaginato qualcosa del genere.
Quando ebbe quasi del tutto sovrastato la base, una gran luce divampò nella parte
posteriore, poi sembrò frazionarsi in migliaia di lumi paragonabili a lucciole; ma era-
no degli oggetti volanti che si accinsero a compiere il lavoro che nei porti viene ese-
guito dai rimorchiatori. Ognuno di quei lumi brillava di un colore diverso, e tutti in-
sieme formavano una sorta di bacino colorato su cui la massa incredibile - larga due
chilometri e lunga almeno quattro - sembrò adagiarsi. Poi si piegò lievemente di lato,
mentre il bacino mobile formato dai mille veicoli luminosi la portava verso un punto
d'attracco più in là nella valle.
Neary era entrato nella base superando il muro di cinta, e stava ora in mezzo ai
tecnici e agli scienziati stupefatti da quello che stavano vedendo.
Il bacino mobile fece scendere piano la massa, schiacciando e frantumando le luci
direzionali che erano state approntate già da diversi giorni, secondo gli ordini di La-
combe. Era così enorme, l'oggetto, che uno dei suoi orli adesso formava un tetto che
ricopriva l'intera base.
Atterrando, la massa aveva creato un suo proprio campo gravitazionale, e in un i-
stante tutti e tutto divennero più leggeri di quasi la metà del loro peso. Fu come se
nella base si fosse diffusa una sensazione di euforia. I tecnici cominciarono a saltare e
a volteggiare nell'aria, i più atletici esibendosi in salti mortali e ardite capriole. I foto-
grafi si levavano in aria e poi rimbalzavano al suolo, sempre scattando foto di quel-
l'incredibile momento.
Quando la massa enorme si fu fermata, la squadra addetta al sintetizzatore si sentì
d'un tratto debolissima. Nonostante gli anni di preparazione trascorsi proprio in attesa
di quell'avvenimento, gli uomini stavano sperimentando tutto il peso di ciò che gli
psicologi definiscono choc culturale.
Lacombe e il caposquadra furono i primi a riaversi, almeno in parte. Decisero di
spostare il sintetizzatore, avvicinandolo di una ventina di metri alla massa in-
combente.
Il coordinatore parlò nel suo microfono: «Tutti i settori operativi per questa fase
segnalino mediante due impulsi».
Due impulsi sonori echeggiarono nel canyon, rompendo il profondo, irreale silen-
zio.
Il tecnico nella cabina chiese: «L'analizzatore audio è pronto? Allora attenti!».
Il coordinatore, più tranquillo ora che aveva qualcosa da fare, disse: «Se qui nella
parte oscura della luna tutto è pronto, via con le cinque note».
Shakespeare le suonò molto piano.
Dalla massa nera, nessuna risposta.
«Encore» ordinò Lacombe.
Le cinque note solcarono di nuovo l'aria notturna.
Dalla grande nave si udì un suono. Come il grugnito di un maiale.
«Deve aver mangiato qualcosa di pesante» commentò nervosamente il caposqua-
dra.
Il tecnico-musicista ripetè le cinque note.
Questa volta, silenzio assoluto.
«Ancora» disse il caposquadra.
Shakespeare ricominciò a suonare.
E d'un tratto fu la grande nave spaziale a suonare le ultime due note, con un fra-
stuono indicibile. Gli astanti si sentirono spinti via come da un gran vento, e i vetri di
tutte le cabine intorno si infransero. All'interno, i tecnici si chinarono per evitare i
frammenti, e ciò nonostante alcuni rimasero feriti, sia pure lievemente. Non se ne ac-
corsero neppure, tanto erano presi da ciò che stava accadendo.
«Okay» disse il caposquadra, dopo un po'. «Suonale di nuovo.»
Il sintetizzatore suonò, e la nave rispose. Questa volta una serie di luci si accese e
si spense secondo il susseguirsi delle note.
Jillian Guiler non era più capace di rimanere lì da sola. Nonostante il terrore, deci-
se di andare a cercare Neary. Aveva bisogno di qualcuno che la aiutasse a sopportare
quell'esperienza. Prese la sua borsa a sacco e la Instamatic, e cominciò a scendere,
seguendo la medesima pista che Neary aveva percorso.
Il coordinatore disse a Shakespeare e al tecnico in cabina: «Dalle sei battute, poi
pausa».
Il musicista suonò come richiesto.
La nave fece eco alle sue note e poi ne suonò un gruppo diverso, una serie di note
che nessuno aveva mai udito prima di allora.
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