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spostamenti attraverso la città servivano a moltiplicarle.
A volte provavo un odio generalizzato per tutti quelli con cui aveva a che fare. Mi veniva in
mente la voce di qualcuno in una mia vecchia intervista telefonica, o una faccia sulle pagine di
Prospettiva; le dicevo: Quel cialtrone?, o Quell'imbecille tronfio?, o Quel mafioso democristiano?,
in un tono che avrebbe potuto usare Polidori.
Lei aveva una specie di rispetto timoroso da attrice per questi personaggi; mi diceva: «Ma
come ti permetti? Cosa ne sai?».
Ho capito che mi vedeva come un nemico in quei casi, come uno che da fuori cercava di
minare la sua sicurezza professionale; ho smesso di farle osservazioni. Lei non mi spiegava mai
nessun progetto molto in dettaglio, del resto: più che altro mi metteva davanti un reticolo di
impegni per farmi capire quanto erano complicate le sue giornate, quanto era difficile farci entrare
anche me.
Oppure diceva: Mi ha chiamato un mio amico, o Stasera devo sentire dei miei amici, oppure
Un mio amico mi ha invitata a teatro.
Le chiedevo: «Chi sono questi amici? Sono funzionari della televisione, o compagni di scuola,
o conoscenti, o amanti? Sono sempre la stessa persona?».
Lei non rispondeva; guardava da un'altra parte. E c'erano sempre dei vuoti nei suoi resoconti;
riuscivo a pensare solo a quelli.
Mi è arrivato alla redazione un assegno internazionale dalla Spagna con la prima rata
dell'anticipo per il mio libro. Mi ha stupito quanto l'idea di avere già firmato un contratto, e ha
spostato ancora un poco verso l'esterno il mio modo di lavorare. Mentre scrivevo mi rendevo
conto che le mie frasi avevano un peso e anche una leggera rigidezza che prima non c'era,
procedevano come piccoli treni carichi di responsabilità verso il mondo esterno Ho aperto un
conto in una banca del centro; era ancora un altro passo che mi allontanava da Caterina.
Polidori è tornato dalla Scozia, mi ha telefonato alla redazione di mattina.
Ha detto: «Forse ti ho trovato una casa in un posto meno desolato».
Ho cercato di dirgli: «Ma come?»; lui ha tagliato corto, mi ha dato il numero di telefono di una
certa signora Zanardini.
La Zanardini mi ha risposto in un tono cortese, mi ha dato appuntamento all'una sotto casa
sua. All'una sono andato a prenderla vicino a piazza Campo dei Fiori: un'ex bella donna dagli
occhi azzurri, con i lineamenti appena tirati da un lifting discreto.
Mi ha detto: «Marco dice che lei è bravissimo, così giovane».
Angolava la testa come un uccello mentre parlava, sembrava che si aspettasse di trovare una
ragione evidente della stima di Polidori. Si è messa a camminare molto veloce e nervosa; l'ho
seguita attraverso le vie del quartiere e attraverso un ponte sul Tevere, sempre più teso man
mano che ci avvicinavamo a casa di Maria. A ogni angolo speravo di incontrarla, e anche ne
avevo paura; mi chiedevo cosa avrei fatto se l'avessi vista con Luciano Merzi o con un altro dei
suoi cosiddetti amici.
Ci siamo fermati davanti a un vecchio palazzo giallo, a solo due isolati da quello di Maria,
affacciato su una piazzetta formata da un incrocio di tre vicoli. Dentro, gli appartamenti erano
svuotati e in via di ristrutturazione, c'erano pile di piastrelle e sanitari incartonati sui pavimenti,
polvere di intonaco sulle scale. Solo al primo piano resisteva una coppia di abitanti originari: si
sono affacciati a guardarci da dietro la loro porta malridotta, per niente amichevoli. La Zanardini mi
ha trascinato al terzo piano, lasciandosi dietro una scia di profumo che si mescolava all'odore di
polvere. Era agitata per il suo appartamento, mezza sentimentale e mezza attenta
amministratrice; mi ha spiegato che di solito affittava solo a stranieri perchè con gli italiani c'era
poco da fidarsi, ma se glielo chiedeva Marco naturalmente era diverso.
Doveva esserci stato qualcosa tra loro, a sentire il modo in cui lei pronunciava il suo nome.
L'appartamento era piacevole e luminoso, della misura giusta per una persona sola o anche due,
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